Mese: <span>Maggio 2008</span>

Qui si racconta di un travestito di grande vocazione “senza fissa dimora e senza pace”: è un angelo di luce ma appare a tutti come un angioletto nero, persino i bambini che hanno l’occhio puro lo scambiano per un pipistrello e i grandi neanche sospettano che si possa nascondere nel marocchino che vende fazzoletti di carta e rose bianche alla porta della chiesa. Il “gloria” in latino gli manda a fuoco la testa – ma non lo spoglia dei suoi travestimenti.. Non conosco romanza più seducente e trasversale di questi nostri giorni intricati tra l’invadenza degli immigrati e la tentazione del ritorno al latino, tra buoni che sembrano neri e cattivoni che candeggiano le vesti.

Elena Bono pubblica prose e poesie dal 1950, pratica anche il teatro, ha avuto tanti riconoscimenti ed è tradotta nel mondo ma io l’ho appena scoperta. Me ne ha parlato con contagiosa passione la collega Stefania Venturino che ho conosciuto durante le ore trascorse al centro stampa di Savona in occasione della visita del papa, sabato 17 maggio. Tutte le opere di Elena sono pubblicate dall’editrice Le Mani. La poesia che riporto nel primo commento a questo post è del 2002 ed è contenuta nel volume Poesie. Opera omnia, 2007.

Chi dice la verità parla a nome di tutti. Non rinunciare a dirla perché sei solo. Se qualcuno la dice unisciti a lui anche se appartiene a un altro gruppo o partito.

Mi piace vedere il “sagrato” come figura simbolica della Chiesa vicina e incarnata tra la gente in tutte le sue forme: dalle parrocchie alle aggregazioni antiche e nuove. Il sagrato è stato nell’ultima stagione riscoperto nelle sue valenze religiose e civili, non solo a cerniera tra il sacro e il profano – come era stato nei tempi antichi – ma anche quale luogo dell’accoglienza e dell’incontro, dell’orientamento a Dio come al prossimo. In altre parole, sarà utile se lo spazio antecedente la chiesa, anziché via di fuga o spiazzo che si attraversa frettolosamente, diventa luogo del dialogo, dell’amicizia e dell’ascolto“: così il cardinale Angelo Bagnasco, nella prolusione di lunedì all’assemblea della Cei. Che ne dice, eminenza, della cancellata di Santa Maria Maggiore appena inaugurata (vedi post del 2 maggio: “Cancellata con lance a Santa Maria Maggiore” )?

La felicità ha vent’anni e salta mentre dice alle compagne: “Lui stasera viene da me e abbiamo la casa libera”.

Simona ha 27 anni, è una rom e siede ogni mattina a un angolo del mercato di Via Urbano II, a Roma, vicino a dove abito. Le prime volte ci sorridevamo, poi è nata l’amicizia fatta di condivisione e chiacchiere di donne. Fino all’anno scorso aveva con sè Armandina, 3 anni, l’ultima dei quattro figli. Gli altri li aveva lasciati in Romania con le nonne. Ora anche Armandina è con i fratelli. Simona mi telefona al mattino presto quando ci sono problemi seri. Mi ha chiamata ieri, era sotto la pioggia e voleva essere sicura che passassi all’angolo per raccontarmi: “I bambini hanno paura, sentono discutere noi grandi, vedono la gente del quartiere che viene ai cancelli del campo per protestare e si rendono conto che siamo in pericolo”. Racconta che in queste notti dormono tutti insieme, nelle roulotte meno isolate, per proteggersi a vicenda. Ascoltarla è diventata la mia messa mattutina, attraverso lei passa il dolore dell’umanità povera. In questi anni Simona non ha fatto altro che chiedere un lavoro. Ogni tanto le capita un’occupazione che non basta per sfamare quattro figli e pagare l’affitto anche di una sola stanza. Di persone come lei, mescolate a quelli che rubano, ce ne sono tante. E’ giusto dibattere della domanda di sicurezza che viene dal Paese, ma della domanda di giustizia che viene da questi popoli quando parleremo? – Daniela

Una storia semplice che può aiutare a intendere la condizione dei Rom tra noi, cioè la nostra condizione. La racconta Daniela Storani, una mia nipote che come me viene dalle Marche e vive a Roma. E’ stata presidente nazionale dei giovani di Azione cattolica e lavora all’Istituto superiore di sanità.

Paolo te ne sei andato ieri stremato dal tumore – del quale ci tenevi informati con humor – eppure abbiamo l’impressione che tu sia partito come all’improvviso, avendoti visto con trepidazione al Tg1 che tenevi ancora la postazione del Quirinale nei giorni di avvio del terzo governo Berlusconi. Oltre che della politica eri un dilettante della musica e della narrativa, dello scoutismo e di ogni impegno di pace e di carità che ti capitasse a tiro e lo eri nel senso originario della parola: trovavi diletto in quello che facevi. Tutto ti interessava, amavi le persone che in contravi per caso. Da inviato in Kosovo non distinguevi tra salvare le persone e raccontare gli atti di salvataggio. Sia da ragazzi quando eravamo nella FUCI sia negli anni della professione, quando non potevo accettare un invito per conferenze dicevo: cercate Giuntella, è simile a me e in più vi divertite. I tuoi cappelli, la barba e la pipa, l’amore per la buona tavola, tutto era segno della tua vocazione a fare in modo che la vita ti piacesse. I colleghi del Tg1 ieri sera ti hanno fatto un bel ritratto, ma hanno anche detto che eri un cattolico “intransigente” e ho immaginato come ti saresti divertito a sentire quell’aggettivo. Avranno voluto dire “tenace”, o “appassionato” perchè proprio non avevi nulla di intransigente. Eri ammiratore dell’arcivescovo Romero e di Aldo Moro ma senza predisposizione al martirio. Il tuo modo di essere cristiano era quello della gratitudine per la bellezza della vita. E la tua vita è stata bella, solo pungolata dal rammarico di non riuscire a fare abbastanza perchè ogni vita possa essere bella. Lo dico abbracciando Laura e i tuoi tre bellissimi figli.

Che bello: una donna ebrea difende gli zingari sull’Osservatore romano. E’ una recensione ma dice molto sull’atteggiamento dell’autrice e su quello della testata che l’ospita. Anna Foa segnala Il caso zingari di Marco Impagliazzo, appena pubblicato dalla Leonardo International. Anna si interroga, seguendo Impagliazzo e aggiungendo di suo, sul “razzismo con cui (in Italia, ndr) guardiamo agli immigrati e ancor più agli zingari, come a una presenza di per sé pericolosa e disturbante”. Getta qualche lume sulla storia “sconosciuta” dei nomadi tra noi: li abbiamo dal Trecento e più volte abbiamo tentato di farli fuori solo perché erano “zingari”. Ricorda che nei lager nazisti ne furono sterminati tra i duecento e i cinquecentomila: degli zingari gli scrupolosissimi tedeschi non si curarono di tenere un conto esatto. E che settantamila zingari hanno la cittadinanza italiana. Hanno un’aspettativa di vita che è quasi metà della nostra, molti non vogliono inserirsi e chi vuole non ci riesce. Sono esposti e predisposti a ogni devianza, ma non è immaginabile perseguirli come “abusivi su tutte la terra”. Infine: “la criminalità si colpisce arrestando i criminali, non considerando criminale un popolo intero”. Nel primo commento riporto l’essenziale dell’articolo, che è pubblicato sull’Osservatore di oggi con il titolo Il «caso  zingari». Cultura nomade  tra diritti umani  e doveri civili.

Il mio cane ha avuto due ictus. Ha problemi intestinali. Ho bisogno di aiuto per comprare le medicine. Grazie”: ho letto questa scritta domenica a Genova su un cartone posto davanti al panchetto di un pittore di strada che decorava tazzine sotto i portici di via XX settembre, a due passi da piazza De Ferrari. Il cagnone è lì accanto, palpebre e orecchie basse.

Ho conosciuto una storia che suggerisce una nuova interpretazione della parabola del samaritano che “vide” quel ferito e “ne ebbe compassione”: qui abbiamo una donna che mai ha visto né vedrà la creatura della quale ha avuto compassione. Si chiama Antonella, è mamma, è una donatrice di midollo osseo che è andata in soccorso di un bimbo del Michigan del quale ignora anche il nome. Lo ha fatto pensando ai suoi quattro figli. La storia – che riporto nel primo commento a questo post – è narrata nel volume Testimoni della Consulta delle aggregazioni laicali di Verona (vedi post del 15 maggio). In lei abbraccio tutti i donatori di midollo, di un rene, di una parte del fegato, del sangue cordonale e del sangue ordinario – tutti i donatori di sé che sono intorno a noi. Immagino l’esultanza che avrebbe avuto Gesù all’udire le loro storie: “Beati coloro che non hanno visto i bisognosi eppure ne hanno avuto compassione”.

“Spero ciò che temo”: è un graffito che ho letto l’altro ieri – tra cento altri – su una parete dell’osteria “Cù de Beù” al vecchio molo di Savona. Chissà quanti quel concetto l’avranno detto o scritto prima, ma io l’ho visto lì per la prima volta e mi è sembrato buono riportarlo. C’era sotto anche una specie di firma per me indecifrabile: “Tub & Frac”.