Il blog di Luigi Accattoli Posts

«La sua sarà una momentanea assenza perchè considero la morte come la fine del primo tempo della vita di un individuo»: così Lucio Dalla ha parlato questo pomeriggio della morte di Luciano Pavarotti. Considero Dalla il più capace di parole cristiane tra i nostri cantautori e sono contento che abbia potuto cantare nel 1997 a Bologna davanti a Giovanni Paolo II e sabato scorso a Loreto nel concerto che Benedetto XVI ha aperto con una preghiera in collegamento televisivo dalla Santa Casa. Le parole di ieri sono belle come quelle di “Attenti al lupo”, di “4 marzo 1943”, di “Enna” dove un soldato della guerra di Bosnia dice: “Adesso basta sangue, è il dolore che ci fa crescere. Chi ci aiuta è l’amore“.

Intorno a Natale ci siamo occupati a lungo – in questo blog – della vicenda di Piergiorgio Welby che forse trova oggi una serena conclusione: parole di mite dissenso e cristiana comprensione sono venute da Mina Welby in risposta al cardinale Ruini che l’altro ieri aveva spiegato con l’abituale chiarezza come il suo “no” al funerale religioso fosse stato obbligatorio, stante la dichiarata intenzione di suicidio da parte di Piergiorgio Welby. Mina nega quella volontà, afferma di considerare quella del cardinale una “decisione affrettata” e così lodevolmente conclude: «Per il modo come Piergiorgio ci ha lasciati – cioè in pace con tutti dopo una vita spesa per gli altri – sono sicura che Dio misericordioso l’abbia accolto. Vorrei chiudere questo doloroso capitolo e dire a tutti che errare è umano e credo sia giusto che anch’io come cattolica convinta non serbi rancore verso nessuno».

(Nel primo commento a questo post le parole del cardinale e quelle di Mina Welby)

Batto le mani alla chiamata in Vaticano di Gianfranco Ravasi: l’uomo più colto a capo della cultura.

Le batto anche per la nomina di Francesco Giovanni Brugnaro ad arcivescovo di Camerino: è l’unico nella Cei ad aver fatto politica e potrà trattenere gli altri da quella tentazione.

La parola più viva detta dal papa a Loreto è in questo brano della risposta improvvisata alla domanda di un giovane che – all’inizio della veglia nel campo di Montorso, sabato sera – gli aveva chiesto “dove trovare Dio, se Dio tace”: “Sì, tutti noi anche se credenti conosciamo il silenzio di Dio. Nel Salmo che abbiamo adesso recitato c’è questo grido quasi disperato: ‘Parla Dio, non ti nascondere!’ e poco fa è stato pubblicato un libro con le esperienze spirituali di Madre Teresa e quanto sapevamo già si mostra ancora più apertamente: con tutta la sua carità, la sua forza di fede, Madre Teresa soffriva del silenzio di Dio. Da una parte, dobbiamo sopportare questo silenzio di Dio anche per potere capire i nostri fratelli che non conoscono Dio. Dall’altra, con il Salmo possiamo sempre di nuovo gridare a Dio: ‘Parla, mostrati!’. E senza dubbio nella nostra vita , se il cuore è aperto, possiamo trovare i grandi momenti nei quali realmente la presenza di Dio diventa sensibile anche per noi (…) Non sempre risponde, ma ci sono momenti in cui realmente risponde”. Ho segnalato più volte in questo blog le riflessioni di papa Benedetto sul “silenzio di Dio” (vedi per esempio post del 18 aprile 2007 e del 21 novembre 2006). Per una riflessione più ampia rinvio a un mio piccolo saggio pubblicato sulla rivista Il Regno subito dopo l’elezione del papa teologo (“Non prevedevo l’elezione di Ratzinger”: vedilo nella pagina “Collaborazione a riviste”, elencata sotto la mia foto). L’aspetto più originale della risposta di Loreto è nelle parole che invitano a “sopportare” il silenzio di Dio anche per “capire” i fratelli che non hanno mai udito la sua voce: mi ricorda un invito del cardinale Ratzinger a sperimentare occasionalmente il “digiuno eucaristico” (cioè a rinunciare alla comunione sacramentale) in segno di solidarietà con i fratelli che non possono comunicarsi (il riferimento era ai divorziati risposati).

Del grande evento di Loreto – dove sono come inviato – segnalo agli amici del blog il fenomeno dell’ospitalità diffusa: dei 400 mila ragazzi che sono venuti qua da tutta Italia e da 50 paesi d’Europa e del Meditterraneo, 80 mila sono stati ospitati al di fuori delle strutture alberghiere, in locali delle parrocchie o presso famiglie. Un mio fratello che abita nella campagna tra Recanati e Osimo ha avuto in casa per tre notti tre ragazze venute dalla Germania, un cugino che che abita nella campagna di Montefano ha dato alloggio a sei ragazzi croati. Soltanto durante la guerra – al passaggio del fronte – da queste parti si erano viste così tante nazionalità venire a contatto diretto con la popolazione. Mai dopo la guerra i miei parenti contadini si erano ingegnati a parlare e intendere lingue sconosciute. Per chi cerca segni, questo non è un segno?

– Ho visto un tale che comprava l’Osservatore romano all’edicola
– Sarà stato un curiale che ha avuto oggi una nomina
– No, era un laico
– Allora sarà stato un parente di uno che ha avuto una nomina

– Sento dire che il cardinale Bertone vuole rinnovare l’Osservatore romano
– Introdurrà la pagina dello Sport!

Esercizi di amore del prossimo:
“Amare il prossimo papa”

Sul trasferimento del vescovo Luciano Monari da Piacenza a Brescia:
“Il cardinale Ruini si è tolto un sassuolino dalla scarpa”
(Nonsense basato sul fatto che Ruini e Monari sono ambedue di Sassuolo, Modena – e alludente all’autorità di cui il vicario di Roma gode in fatto di nomine dei vescovi)

Dopo quindici giorni di felice vacanza in Sicilia – diciottesima visita in 35 anni – sono tornato a Roma pieno di vedute e di visioni. Ho gettato l’occhio per la prima volta sui mosaici di Piazza Armerina e sugli scavi di Morgantina, per la prima volta ho camminato nella gola dell’Alcàntara. Finalmente ho fatto il giro intero dell’Etna, da Linguaglossa a Randazzo, a Bronte, ad Adrano. Credo di non aver mai trovato, da nessuna parte, una simile geografia delle meraviglie. Ma sopra a tutto metto la conversazione con i siciliani, guizzante come gli occhi di chi ti parla, seducente nella precisione come nell’ingenuità. Ho chiesto a un pizzarolo di Linguaglossa perchè la sua città si chiamasse così e mi ha risposto raccontandomi con ritmo incantevole – mentre infornava le pizze – la leggenda del “mastro” chiacchierone che abitava all’ingresso del paese e che “parlava così tanto con tutti quelli che arrivavano” che si meritò il soprannome di “linguagrossa” che poi “restò a tutti noi”.  

Ai piedi dell’Etna ho visto la gola dell’Alcàntara, dove il fiume scorre gelido in fondo a due immaginifiche pareti di basalto e credo d’aver capito da dove viene la passione dei siciliani per ogni architettura.

A Scicli nella chiesa matrice di Sant’Ignazio ti mostrano una statua in legno e cartapesta della Madonna a cavallo, con spada e corazza, chiamata “Madonna delle Milizie”, che nella piana dell’attuale Donnalucata (gli arabi la chiamavano Ainlu Kat) avrebbe combattuto a fianco di Ruggero II determinando la vittoria sui saraceni dell’emiro Belcane (1091): il cavallo bianco della Vergine calpesta un arabo e un moro e pare sia un simulacro unico al mondo, paragonabile ai San Giacomo “matamoros” (ammazzamori) della Spagna. Un cicerone guercio e sordo narra la leggenda, mostra la statua, descrive la festa della “Turchesca di Maria delle Milizie” che si tiene il sabato che precede di quindici giorni la Pasqua. Io faccio conto di capire quello che dice e mormoro “bella” – all’indirizzo della statua – ed egli, che mi legge le labbra, è felice della parola e della mancia con cui lo saluto. Quella Madonna con la spada mi scatena tutti i sentimenti, ne parlo con la titolare del bed and breakfast “Giardino a mare” dove alloggio a Donnalucata, Maria Luisa Cannata, che mi racconta come sia stato suo ospite un giorno l’islamologo vaticano Maurice Bormans (già direttore del Pontificio Istituto di studi arabi e d’islamistica), con il quale si è addottorata in lingua araba una sua figlia: lo studioso ha visto la statua e ha detto trattarsi di un “simulacro unico al mondo”.

Tra le meraviglie barocche della città di Noto, passate in rassegna a una a una sotto il fuoco del mezzogiorno, ho ascoltato un dialogo dolente tra una donna e un uomo con figlio all’incirca dodicenne, stanco di camminare. Lui che dice: “Dobbiamo ancora vedere questo e quello”. E lei in tono rattristato: “L’importante è vedere vedere vedere, non importa come”. Un’ora dopo ritrovo la mamma e il ragazzo, lei che piange mite e si asciuga la guancia con un fazzolettino di carta e il figlio alle prese con un grosso gelato. Immagino la protesta del ragazzo stanco di “vedere”, la donna che prende la sua difesa, l’inflessibile coatto del “vedere” e la momentanea frattura del trio visitante.