Il blog di Luigi Accattoli Posts

Ragusa Ibla: un sogno, un trofeo, una cascata di pietre fatte umane dal tempo. Scicli al tramonto vista dalla bastionata di San Matteo, quando si accendono le luci tra le grigie case in pietra tufacea del quartiere medievale: un braciere con il fuoco tra la cenere.

Capita che tu stia facendo una tranquilla nuotata in mare e la corrente ti porti al largo senza che te n’accorga. Quando non tocchi più fai per tornare, ma più nuoti e più ti ritrovi lontano dalla riva. La moglie e le figlie danno l’allarme e si tuffano due e poi quattro e infine sei tra bagnanti e bagnini per aiutarti a tornare a riva e uno di loro è albanese. Qualcuno chiama l’ambulanza che arriva appena sei uscito dall’acqua, ti misurano la pressione e verificano che tutto è a posto. Firmi una dichiarazione liberatoria e ti lasciano andare. Ti spiegano che in quel tratto di mare c’è una corrente che fa questi scherzi e tu offri un gelato ai soccorritori e alle loro famiglie. Si fa pure una foto di gruppo, salvato e salvatori. E’ capitato a me stamattina nelle acque del “mare africano” a Donnalucata (Ragusa). Credo si sia trattato di un vero salvataggio anche se i soccorritori mi hanno più che altro accompagnato a riva, continuando io a nuotare come potevo. Ma l’aiuto è stato reale, per almeno un minuto mi hanno tirato per le braccia e qualche spinta l’ho molto apprezzata. Se non mi sono abbandonato al panico e non ho “bevuto” più che tanto è stato di certo per la presenza di quegli amici occasionali. Racconto questo fatto da nulla per dire che l’umanità è solidale almeno nelle piccole cose, che generalmente sono la misura di quelle grandi.

Mentre giro per la Sicilia leggo La luce e il lutto di Gesualdo Bufalino (Sellerio 1988) dov’egli sognava per la sua isola “un domani imminentissimo, che già sorride nelle facce dei giovani, vibra nei loro gesti rapidi e lieti, nel mistero incantevole dei loro destini” (p. 15). Un tempo in cui “sarà impossibile distinguere una coppia di ragazzi che passeggia per un viale del parco di Monza da un’altra che balla allacciata in una discoteca di Canicattì” (ivi p. 16). A vent’anni di distanza tento una verifica di quella proiezione del desiderio con l’arte – che sento più mia – della collazione delle scritte sui muri e con poco mi convinco che quel domani è già arrivato. Ecco a Catania, in piazza Dante, sui muri dell’Università, le scritte: “Buongiorno principessa dalle guanciotte rosse. By Didi”; “Ti ringrazio non solo per quello che tu sei ma anche per quello che sono io quando sto con te. Per Federica”. Sull’Etna, scritto su un muretto del piazzale da cui partono gli escursionisti per i “Monti rossi”: “E riveleremo che è possibile vivere soltanto di amore e desiderio”. Sono le scritte che trovo ovunque in Italia.

Ugo Adamo è un cultore di archeologia che mi ha mostrato la Villa romana del Casale (Piazza Armerina) e gli scavi di Morgantina (Aidone) che fu sicula, greca e romana e dove l’Università di Princeton ha individuato una vasta agorà nel mezzo della quale vi è un albero di fico che mi ha dissetato a metà della visita. Un fico dolcissimo avevo colto l’anno scorso da una pianta della Valle dei templi di Agrigento, in vista delle 38 colonne della Concordia (vedi post del 21 agosto 2006). Feci da solo e mi parve un sacrilegio, come l’avessi tolto di bocca a uno degli scalpellini impegnati nella costruzione della “più bella città dei mortali”, come Pindaro qualificò Akragas. Stavolta invece è stato l’arguto Ugo, assegnatomi come guida dal vescovo Pennisi, a segnalarmi i fichi e ad aiutarmi a raccoglierli.

Guardo alla Sicilia come a una seconda patria tanto ne amo la luce e le pietre. Ma sono i siciliani che più mi attirano, con quella parlata tagliente e l’intelligenza che essa trasmette. Una risorsa con cui questo popolo rimedia a tante lacune. La segnaletica stradale per esempio in Sicilia è per lo più incoerente ma non c’è siciliano che non sappia dirti per dove prendere e a quale semaforo svoltare. Qui la più gran dote è la cultura dell’ospitalità che non finisce di stupirmi. Mi congedo dal vescovo di Piazza Armerina dicendogli che andrò a vedere Grammichele, la cui pianta – che si sviluppa a partire da una piazza esagonale – mi ha stregato da quando l’ho vista in una foto aerea. E lui a dirmi che a Grammichele è nato e che telefonerà al sindaco e al comandante dei vigili e non so a chi altro perché mi venga mostrata la “lavagna” che domina l’atrio del palazzo comunale, sulla quale è scolpita la pianta della città tracciata alla fine del Seicento da Michele da Ferla dopo che la vicina Occhiolà fu distrutta dal terremoto del 1693. “Ora le do il numero di telefono dell’ex sindaco Salvatore Scacciante che le farà da guida”, dice il vescovo. E io a dire e ripetere  che “no, non voglio” perchè “non oso legare qualcuno ai capricci della mia tabella di marcia”. Due ore dopo sono sulla piazza di Grammichele e mi sto chiedendo se percorrerla in senso orario o antiorario, quando mi si fa incontro un signore garbatissimo che dice: “Il dottor Accattoli? Sono Scacciante, amico del vescovo Pennisi”. Sta con me due ore e mi mostra la sede del comune, il museo archeologico, la mostra che in esso è allestita, la chiesa di Santo Spirito e tutto il resto e infine mi accompagna all’imbocco della strada che mi porterà a Lentini. Io non so essere così ospitale, a Roma non lo siamo. Ammiro chi lo è.

Sono per la diciottesima volta in Sicilia. L’anno scorso (vedi post del 13 agosto 2006 e seguenti) ho fatto il periplo dell’isola, quest’anno punto verso l’interno ed eccomi a Piazza Armerina dove arrivo giusto in tempo per vedere il 14 agosto la conclusione del Palio dei Normanni e il 15 la festa di Santa Maria delle Vittorie. Il riferimento è al Conte Ruggero che libera la città dalla dominazione araba. Il corteo esibisce cinquecento figuranti con i notabili della città che consegnano le chiavi di Piazza al conte, tamburini e gonfalonieri, arcieri e cavalieri, dame e damigelle che sfilano senza fare confusione, compresa un’intera famiglia di falconieri con un maestoso gufo reale a capo scoperto e i suoi piccoli incappucciati retti sul pugno dai bambini. Ma la ricchezza della manifestazione sono i cavalli: una cinquantina, sommando i 24 gareggianti e gli altri di accompagno, trattati con disinvoltura e proprietà. Il migliore tra i cavalieri in gara, deciso e fulvo, ricorda l’Aragorn del Signore degli Anelli. In tante città d’Italia si vedono giostre, pali e quintane anche di maggiore tradizione rispetto a questo di Piazza Armerina che però attesta una cultura viva del cavallo ormai rara dappertutto. – Sono stato ospite del vescovo Michele Pennisi, che i visitatori del blog già conoscono (vedi post del 21 settembre) e che ho lasciato in partenza per il Perù dove domani a Cuzco inaugurerà una “Città dei ragazzi” che ospiterà 250 ragazzi poveri. Un’opera realizzata dai “Servi dei Poveri del Terzo Mondo” fondati da padre Giovanni Salerno originario di Gela e incardinato nella diocesi di Piazza Armerina. Buon viaggio al vescovo Pennisi e buona missione al padre Salerno.

Dodicesima scena. Entra nella tenda, in pieno giorno, il capo dei sequestratori e dice:

“Il riscatto è stato pagato, sei libero. L’Onnipotente, il Misericordioso ha ascoltato la nostra preghiera. O mio Dio nel giorno del giudizio poni il libro delle mie azioni nella mia destra, non nella mia sinistra ed esamina con favore il mio conto e quello dei miei compagni che hanno rischiato la vita per obbedire al tuo comando”.
Il missionario raccoglie la sua bisaccia, vi mette dentro il breviario e le sigarette, che erano poggiati su un masso in primo piano ed esce di spalle, dal fondo della tenda, dicendo ad alta voce:

“Grazie Signore per aver guardato alla miseria del tuo servo e per aver ascoltato il suo lamento. Fai in modo che il denaro che è stato pagato per la mia liberazione non serva per uccidere. Sono distrutto dalla compassione per quei quindici e quei tre che sono morti a causa mia. Tocca il cuore di questi giovani che mi hanno tenuto prigioniero. Sono stati gentili con me e soprattutto – mi vergogno a dirlo – mi hanno ricordato l’importanza della preghiera. Che missionario ti sei andato a cercare Signore, che missionario!” 
                                                   – FINE –

Undicesima scena. Si fa giorno ed entra il capo dei sequestratori, di nuovo con un giornale in mano. Mentre lo legge si ode la sua voce fuori campo che dice:

“C’è stato un altro combattimento e stavolta sono morti tre guerriglieri. Dio che fai uscire il vivo dal morto e il morto dal vivo perdona ai nostri vivi e ai nostri morti i passi che hanno compiuto credendo di allontanarsi da te per compiere opere di maledizione e benedici quelli che a te si sono avvicinati per compiere opere di benedizione”.
Quando ha finito passa il giornale al missionario, che lo legge a sua volta mentre fuori campo si ode la sua voce che dice:

“Quindici persone sono morte per me e tre contro di me. A quei quindici hanno tagliato la testa come a Giovanni il Battista. Questi tre li hanno riempiti di piombo dopo che probabilmente li avevano torturati. Qui è scritto che erano stati fatti prigionieri qualche ora prima della morte stabilita dall’autopsia. C’è un’inchiesta. E c’è la mia foto perché tutto ciò avviene a mio carico. Quelle teste i guerriglieri le hanno tagliate in nome del loro Dio. Questi altri la polizia li ha uccisi in nome dell’autorità dello stato che viene da Dio, come sta scritto nei libri. Il loro Dio, il nostro Dio! Non ne posso più, non so più chi prego. Dio Dio Dio…Hai dunque troppi figli che li lasci morire così? Giuro – Signore – che se mi tieni qui ancora un giorno divento ateo”.

Decima scena. Viene il buio. Il capo dei sequestratori accende una lanterna e mentre svolge questa operazione si ode la sua voce fuori campo che dice:

“O Dio, tu sai che cosa ne sarà di questo prigioniero che cerchiamo di trattare con gentilezza, perché egli in questo momento è un oppresso e ben sappiamo che tra te e la supplica dell’oppresso non si interpone nessun ostacolo”.
Il missionario prepara il suo giaciglio e si sdraia sulle foglie. Quando è sdraiato il capo dei sequestratori gli lega mani e piedi. Durante questi atti si ode la sua voce fuori campo:

“Signore non ho più nulla da dirti. Il mio cuore è arido. Il breviario non mi aiuta. Non sono degno neanche di pronunciare il tuo nome. L’unico sentimento che mi riempie il cuore è quello della pietà per i quindici che sono morti e per me e anche per questi poveri disgraziati che mi hanno sequestrato. Forse sono più indegno di parlarti rispetto a loro, nonostante i quattro mitra che imbracciano. Ma di’ soltanto una parola e io sarò salvo”.

Nona scena. Torna la luce nella tenda, il capo dei sequestratori si prostra e si sente come sempre la sua voce fuori campo che dice:

“O Dio, prego per ottenere la capacità di agire attraverso la tua potenza. Tu sai e io non so, tu puoi e io no. Se tu vedi che quanto stiamo facendo è buono allora fa che la nostra azione abbia successo. Se è male allontanala da noi”.
Poi tocca al missionario che seduto sui talloni, mani e piedi legati, così parla con voce fuori campo:

“Questo combattimento delle preghiere a cui mi hai chiamato – Signore – mi distrugge. Come si fa a pregare nella lotta? Un povero cristiano non ha diritto di pregare in pace i suoi salmi? Ma davvero tu – Signore – ascolti tutte le creature che si rivolgono a te? Non distingui tra chi ha il mitra e chi è disarmato?”

Ora tutti sono seduti sulle pietre. Il capo dei sequestratori si alza, va verso il missionario e gli dice: “Ti tengo prigioniero ma mi sei simpatico. Tu certo mi odi, eppure mi piacerebbe incontrarti quando sarai libero e parlare un poco”.

Il missionario si alza in piedi e gli risponde così, faccia contro faccia: “Non ti odio, ti ho già perdonato e sono allenato a non serbare rancore. Ma fuori di qui è meglio che non ci incontriamo, altrimenti ti denuncio perché rapire le persone è contro ogni legge umana e divina”.
Il capo dei sequestratori replica con lo stesso tono: “Lascia stare le leggi divine. Dio non vuole che tutta la ricchezza sia da una parte. E’ per quello che noi facciamo i sequestri”.