Anno: <span>2008</span>

In treno da Firenze a Bologna. Appennino squadernato. L’oro del sole sulle foglie. E io che guardo.

«Quando un grande teologo perde i denti, è maturo per il cardinalato»: è un motto mordace di Hans Küng contenuto nel primo volume delle Memorie (Diabasis, Reggio Emilia 2008), che narrano i primi quarant’anni del teologo svizzero tedesco che oggi ne ha 80. A 21 anni Küng, alunno del collegio germanico di Roma, annota in data 18 settembre 1949: «Signore, concedimi di essere sempre dalla parte del papa in ogni cosa».

“L’espressione ‘sola fide’ di Lutero è vera se non si oppone la fede alla carità, all’amore”: l’ha detto ieri il papa all’udienza generale e mi appare come un punto centrale della sua predicazione, nella quale si incontrano spesso espressioni del tipo “basta amare” (vedi post del 13 settembre). Sempre ieri Benedetto ha usato anche l’espressione “solo amore, sola carità”. Ecco la conclusione della catechesi, aperta dalle parole riportate all’inizio del post: “La fede è guardare Cristo, affidarsi a Cristo, attaccarsi a Cristo, conformarsi a Cristo, alla sua vita. E la forma, la vita di Cristo è l’amore; quindi credere è conformarsi a Cristo ed entrare nel suo amore. Perciò san Paolo nella Lettera ai Galati, nella quale soprattutto ha sviluppato la sua dottrina sulla giustificazione, parla della fede che opera per mezzo della carità (cfr Gal 5,14). Paolo sa che nel duplice amore di Dio e del prossimo è presente e adempiuta tutta la Legge. Così nella comunione con Cristo, nella fede che crea la carità, tutta la Legge è realizzata. Diventiamo giusti entrando in comunione con Cristo che è l’amore. Vedremo la stessa cosa nel Vangelo della prossima domenica, solennità di Cristo Re. È il Vangelo del giudice il cui unico criterio è l’amore. Ciò che domanda è solo questo: Tu mi hai visitato quando ero ammalato? Quando ero in carcere? Tu mi hai dato da mangiare quando ho avuto fame, tu mi hai vestito quando ero nudo? E così la giustizia si decide nella carità. Così, al termine di questo Vangelo, possiamo quasi dire: solo amore, sola carità. Ma non c’è contraddizione tra questo Vangelo e San Paolo. È la medesima visione, quella secondo cui la comunione con Cristo, la fede in Cristo crea la carità. E la carità è realizzazione della comunione con Cristo. Così, essendo uniti a Lui siamo giusti e in nessun altro modo“.

“Ti parla e ti mostra la via da seguire. Quando sbagli strada, te la fa recuperare. Se vai troppo veloce, ti invita a rallentare, a stare al passo di Dio”: è il navigatore satellitare secondo don Benzi, a quanto riferisce il biografo Valerio Lessi a p. 41 del volume Don Oreste Benzi. Un infaticabile apostolo della carità, San Paolo 2008 (vedi post del 2 e del 4 novembre). Non uso il navigatore perché mi diverto a cercare la strada sulla carta ma questa “parabola” di don Oreste mi pare garbata e non dissimile da quelle evangeliche del lievito o del chicco di senape: a parte il richiamo al “passo di Dio” che suppongo non abbia nulla a che fare con il limite dei 50, 90 e 130 . Me ne sono ricordato leggendo la messa in guardia dal TomTom che è venuta domenica dal creativo passionista di Mondragone Antonio Rungi, che ha proposto un suo decalogo dell’automobilista che parte dall’invito a evitare l’uso di “cellulare, dvd, TomTom, tv ed altro che ti deconcentrano dalla guida”. Già ero contrario al decalogo vaticano per l’automobilista (vedi post del 19 giugno 2007) che iniziava con l’ovvio “non uccidere” e ora lo sono due volte.

Ho aggiornato ancora l’agenda telefonica (vedi post del 14 novembre 2007) disegnando un fiore accanto ai nomi di amici che chiamavo al telefono e ai quali ora parlo direttamente: Achille Ardigò, Corrado Balducci, Enzo Biagi, Enrico Di Rovasenda, Leopoldo Elia, Paolo Giuntella, Michele Piccirillo. Questa dei fiori nell’agenda è un’operazione di ogni anno, nell’ottavario dei morti. Altri fiori ho disegnato accanto a nomi di partiti nell’anno che valgono solo per me, o quasi: Gianluigi Conti, Maurizio Di Giacomo, Mario Falciatore, Elda Forza, Lucio Raffa. A ognuno, famoso o sconosciuto, il bacio della pace. Siete tutti belli.

Benedetto sei un maledetto!“: si legge sul parapetto del Tevere, riva sinistra, poco dopo il Ponte Regina Margherita, per chi cammini secondo la corrente. Chissà se mira al papa o a un ragazzo di nome Benedetto. Nè saprei chi scegliere, se fosse mia la responsabilità della scelta. 

Ecco perché i miei amici gabbiani (vedi post del 25 giugno e altri lì richiamati) guardano con tanto distacco dall’alto dei tetti: perché sono di stirpe regale. Su un manifesto del Bioparco di Roma, che leggo in piazza Colonna, trovo la spiegazione di tanta dignità: “Il gabbiano reale – Laurus Michahellis – fino a qualche anno fa era considerato raro in città ma, dagli anni 70, quando iniziano le prime nidificazioni, la popolazione è cresciuta in modo continuo e ora è una delle specie più comuni. Sfrutta i tetti degli edifici per riposare e nidificare, si alimenta nelle discariche e nei fiumi”. E pensare che io li chiamavo “zampegialle” e attribuivo quell’alterigia all’indole solitaria della gente di mare.

Il presidente dei vescovi statunitensi, cardinale Francis Eugene George, parlando l’altro ieri ad apertura dell’assemblea dei vescovi, ha detto che i cattolici esultano e gioiscono per l’elezione di Obama, avendo storicamente contribuito al superamento del pregiudizio razziale: “Simbolicamente, questo è un momento che tocca particolarmente la nostra storia, dato che un Paese che un tempo aveva adottato la schiavitù razziale nel suo ordine costituzionale ora ha eletto un afroamericano alla sua presidenza. Per questo, lo credo sinceramente, dobbiamo tutti esultare. Dobbiamo allo stesso tempo augurarci che il presidente Obama possa riuscire nel suo compito, per il bene di tutti. Gli ostacoli sono formidabili. Siamo internamente divisi e, sotto l’aspetto globale, saremo meno padroni del nostro destino politico ed economico. Cionondimeno, oggi possiamo gioire con coloro i quali, seguendo figure eroiche come quella del reverendo Martin Luther King jr., sono stati parte del movimento che ha operato per affermare nel nostro Paese i diritti civili, la legalità, in migliore accordo con i diritti umani universali e con l’ordine di Dio. Tra così tante persone di buona speranza, preti devoti e religiose caritatevoli, i vescovi e i laici  della Chiesa cattolica che hanno portato nel loro cuore la dottrina sociale possono ora sentirsi riscattati. I loro successori rimangono, specialmente fra coloro  i quali in silenzio offrono le loro vite per insegnare e formare nelle scuole cattoliche buoni e gioiosi bambini afroamericani e di altre minoranze”.

“La parola ‘clandestino’ è impropria ed ha acquisito ultimamente un tono criminalizzante” dice il direttore di Redattore Sociale, Stefano Transatti, annunciando che l’agenzia non l’userà più “per rispetto degli stranieri che sono tra noi: sia quelli che vivono in Italia da tempo e per qualche motivo non sono in regola con il permesso di soggiorno, sia quelli che l’estrema povertà o la guerra o la persecuzione hanno costretto ad affrontare pericoli mortale per arrivare qui”. Da oggi i lanci del notiziario DiReS – incrocio tra l’Agenzia Dire e l’Agenzia Redattore Sociale – non conterranno la parola “clandestino” riferita a persone immigrate, a meno che essa non sia presente in testi altrui riportati tra virgolette. Al posto di “clandestino” useranno “irregolare, migrante, immigrato, rifugiato, richiedente asilo, persona, cittadino, lavoratore, giovane, donna, uomo e così via”. – Avevo già sentito il motto Non ci sono clandestini sulla terra, non ricordo da chi e l’avevo apprezzato. Nei miei articoli quella parola l’usavo e forse l’userò, ma sono contento che venga posto il problema. E’ utile scoprire in quanti modi si può dire “raca” (in Matteo 5,22: parola aramaica che vuol dire “testa vuota”) a un “fratello” magari senza avvedersene: Gesù diceva che equivale a uccidere. Il termine più appropriato mi è sempre parso lo spagnolo “indocumentado”, che però in italiano suona male: “senza documenti”. I francesi hanno “sans papiers”.

“E’ vietato scendere dalla parte opposta al marciapiede riservato al servizio viaggiatori”: lo ripete il capotreno a ogni fermata. Era un avviso che da sempre davo ai figli in partenza per il primo viaggio da soli perchè mi era mancato una notte del secolo scorso quando ero sceso con lieta furia dalla parte “opposta” e non avevo trovato quella che era corsa a cercarmi lungo le carrozze, guardando avanti e dietro. Non c’erano i telefonini e ci perdemmo. Chissà a quanti sarà capitato. Ed ecco il provvidenziale avviso: davvero il progresso non ferma.