Il blog di Luigi Accattoli Posts

Invito i miei visitatori a fermarsi un paio di giorni sulle pagine 174 e 175 del libro di Raztinger-Benedetto su Gesù, che tratta dell’abuso umano del “nome” di Dio, nome che di per sè – in quando dono e rivelazione – riassume il “meraviglioso mistero della sua accessibilità da parte nostra”. Insomma: Dio si rivela, ci comunica il suo nome, “si rende invocabile” e noi quel nome lo macchiamo, lo deturpiamo, l’asserviamo ai nostri scopi, lo rendiamo irriconoscibile. Ecco i passaggi più intensi delle due pagine:

Il nome crea la possibilità dell’invocazione, della chiamata. Stabilisce una relazione. – Ciò che giunge a compimento nell’incarnazione ha avuto inizio con la consegna del nome. – Dio ora è davvero divenuto accessibile nel suo Figlio fatto uomo, Egli fa parte del nostro mondo, si è consegnato, per così dire, nelle nostre mani. – Ora del nome di Dio si può abusare e così macchiare Dio stesso. Possiamo impadronirci del nome di Dio per i nostri scopi e deturpare così l’immagine di Dio. – Quanto più egli è vicino, tanto più il nostro abuso può renderlo irriconoscibile. Martin Buber ha detto una volta che con tutto l’infame abuso del nome di Dio potremmo perdere il coraggio di pronunciarlo. Ma tacerlo sarebbe ancor più un rifiuto del suo amore.

Per entrare meglio in questa riflessione suggerisco due approfondimenti. Il primo riguarda il paragrafo 19 della Gaudium et Spes (1965), quando pone tra le cause dell’ateismo i credenti che in parole e opere “si deve dire piuttosto che nascondono e non che manifestano il genuino volto di Dio e della religione”. Il papa non cita la costituzione, ma questo contenuto del documento conciliare corrisponde a una parte della sua riflessione. Il secondo è il testo di Martin Buber cui il papa rinvia senza citarlo. Si tratta di un brano del volumetto intitolato Eclissi di Dio (Mondadori 1990), che potrebbe essere letto come il testamento di quel grande ebreo della nostra epoca: “Sì, la parola Dio è la parola più sovraccarica di tutto il linguaggio umano. Nessuna è stata talmente insudiciata e lacerata. Generazioni di uomini hanno scaricato il peso della loro vita angustiata su questa parola e l’hanno schiacciata al suolo; ora giace nella polvere e porta tutti i loro fardelli. Generazioni di uomini hanno lacerato questo nome con le loro divisioni in partiti religiosi; hanno ucciso e sono morti per questa idea e il nome di Dio porta tutte le loro impronte digitali e il loro sangue”.

Essendo il punto di partenza della riflessione papale l’invocazione del Padre nostro “Sia santificato il tuo nome”, e partendo egli dalla rivelazione del nome di Dio a Mosè, dobbiamo ritenere che quando parla di “abuso” Benedetto intenda lo strazio che di quel nome hanno fatto – innanzitutto – gli ebrei e i cristiani. Per stare ai cristiani, ben sappiamo che le guerre di religione furono proclamate in nome di Dio, i roghi furono accesi in nome di Dio, i ghetti degli ebrei e ogni altra vessazione verso di loro i cristiani la compirono in nome di Dio. Anche gli omosessuali venivano posti alla gogna e qualche volta bruciati in nome di Dio. In quelle due pagine c’è questa profondità. Proviamo a calarci in essa, miei visitatori.

Viene pubblicato oggi un documento sulla Pastorale della strada firmato dal cardinale Renato Raffaele Martino e dall’arcivescovo Agostino Marchetto, presidente e segretario del Consiglio per i migranti e gli itineranti. Sono debitore al cardinale Martino di molte interviste e sono grato all’arcivescovo Marchetto per aver narrato in un piccolo libro la fuoriuscita da una grave malattia: chiedendone scusa ai due autori mi domando se quel documento fosse necessario. Contiene di sicuro pagine utili a chi è cristianamente impegnato sul fronte della prostituzione, dei ragazzi di strada e dei barboni. Trovo meno specifico il capitolo rivolto agli “utenti della strada”: mi pare – fin dal titolo – una materia da lasciare per intero agli uomini di buona volontà, che siano cristiani o meno. In esso viene proposto anche un “decalogo del conducente” che inizia con l’ovvio “non uccidere”. Ma anche per gli altri tre capitoli chiedo se sia necessario un testo vaticano. I cattolici impegnati su quei fronti fanno i loro convegni e hanno i loro sussidi, che bisogno c’è di una parola che venga dai collaboratori del papa? Non giova a tutti che – in materie non essenziali – lo scambio sia libero e la varietà incoraggiata? Tra le mie attese verso il pontificato di Benedetto XVI vi è anche quella che faccia dimagrire la Curia e la convinca a pubblicare meno documenti, a partire dalle materie periferiche. Mi piacerebbe un Vaticano che rinuncia a monete e francobolli e una Curia che si concentra sugli elementi essenziali della vita della Chiesa. 

All’alba su Roma arrivano i gabbiani. Negli anni hanno imparato a risalire il Tevere. Una volta restavano sul fiume ma ora cercano tutta la città. Con gridi e gridi scendono verso le piazze. Si affollano in picchiata intorno alla metropolitana che esce all’aperto sul ponte Pietro Nenni prima che si rintani. “Levate il capo” sembrano gridare: “Non vedete?”  

Siate, cari giovani, la mia gioia come lo siete stati di Giovanni Paolo II, prego!“: è stato l’ultimo saluto del papa ai giovani, sul piazzale di Santa Maria degli Angeli, ieri sera nella piana di Assisi. Dieci appuntamenti in undici ore, il passo sveglio, la parola pronta, le improvvisazioni – come sempre – senza sbagliare una virgola. Anche quest’ultima battuta aveva un elemento originale: quel “prego” che era un’aggiunta rispetto al testo scritto e si è sentito bene, dal tono della voce, che gli è venuta dal cuore. Mi racconta il padre Enzo Fortunato – direttore del Centro Stampa – che alla tomba di Francesco, dopo aver acceso la lampada votiva, il papa ha detto al padre Custode Vincenzo Coli: “Che bello qui”. Un momento divertente c’è stato invece durante la visita al Sacro Convento, quando il padre Custode gli ha mostrato il libro dei visitatori illustri e Benedetto lo sfogliava interessatissimo e diceva: “Ecco Abu Maze, c’è anche Mubarak, qui il nostro Napolitano”. Un papa più sciolto e voglioso di fraternizzare, pur nell’asciuttezza che lo caratterizza. Imparagonabile al Benedetto XVI della prima visita in Italia, quella del 29 maggio 2005 a Bari per il Congresso Eucaristico, quando arrivò, celebrò e riparti senza fermarsi neanche a pranzo. E i pugliesi – che hanno la religione della tavola più cara del cattolicesimo – ancora non riescono a crederci. Ad Assisi invece si è anche impegnato a tagliare la torta alzandosi in piedi ed esclamando “tocca a me”, a quel tavolo dove ha pranzato avendo a destra il presidente Prodi e a sinistra il vescovo di Assisi.

Ad Assisi di notte, fuori porta San Giacomo. Escono dalle mura due camerieri di un ristorante trascinando sacchi di spazzatura. “Che sono questi” fa lui indicando con la testa una fila di cabine sotto gli alberi. “Gabinetti per la folla di domani” dice lei. “Gabinetti? Tu scherzi”. E la ragazza: “Alì aggiornate, sono gabinetti chimici. In Marocco non li avete, vero?”

Vigilia trafelata della venuta del papa ad Assisi per gli 800 anni dalla conversione di Francesco. Domani Benedetto XVI avrà una giornata intensa: dieci appuntamenti, più di quanti gliene abbiamo mai visti accumulare in una giornata fino a oggi: parte dall’eliporto vaticano alle 07,30 e rientra alle 19,50. Si direbbe che ci abbia preso gusto a fare il papa. – In vista di tanto movimento i poveri giornalisti si “posizionano” fin dalla sera prima, perché “domattina sarà tutto bloccato”. Percorso avventuroso per portare la Croma al parcheggio stampa “Selva di San Francesco”, alle spalle del Sacro Convento. Bella veduta al tramonto dei suoi contrafforti, delle rampe e delle muraglie in pietra rosata del Subasio. Mai ti capita di arrivare a ridosso di tanta meraviglia e vedendola da lontano – poniamo dall’agriturismo Carfagna che è subito sotto, dove si mangia un ottimo “scottadito d’agnello” – uno dice “beati i frati che ci abitano”. Dedico ai miei visitatori la vista di un’edicola con papa in trono, che aggetta dall’alto dell’ultimo sperone a scivolo sulla valle. Poveretto, se solo soffriva di vertigine!

Nella notte è morto Giuseppe Alberigo, la testa migliore del nostro cattolicesimo critico, quello che si ispira a Dossetti e fa lavoro culturale alto. Non era un uomo amabile. Combattivo forse più del necessario, faceva soggezione. Ma era un credente e io l’ho amato per una o due frasi che ho preso da lui in un periodo in cui un poco lo frequentavo, quasi quarant’anni addietro: “resistere alla tentazione di abbandonare la fede” e “prestare attenzione a chi ci aiuta a credere”. La sua intelligenza aiutava a credere. – Un abbraccio alla cara Angelina, ai figli e ai nipoti.

“Maestra, hai visto il film dei preti cattivi? Io l’ho visto e la mia mamma ha detto che non mi manda più al catechismo”: dialogo di fine anno in una scuola romana (vedi post del 1° giugno).

E’ nato Pietro figlio di Agnese, figlia di Luigi che sarei io. E’ il secondo nipote e l’accogliamo con la festa assommata con cui abbiamo accolto i figli e il primo nipote. Benvenuto piccino bello nella grande giostra della vita! Tu sei per noi il segno che Dio non si è pentito della sua alleanza con l’umanità. Un grande abbraccio a te, a mamma Agnese e a papà Paolo dai nonni Isa e Luigi.

Nel mio commento al libro del papa su Gesù oggi mi fermo su una sola frase, che tratta del “falso legalismo contro cui combatte Paolo e che, nell’intero corso della storia, purtroppo, è stato posto sotto l’infelice nome di giudaismo” (p. 150). Una frase importante, che riassume efficacemente la riflessione del cardinale e teologo Ratzinger sulla relazione tra la Chiesa e Israele e sulla “consapevolezza di una colpa, a lungo rimossa, che grava sulla coscienza dei cristiani dopo i terribili eventi dei dodici funesti anni dal 1933 al 1945”, come si era espresso nel volume  La Chiesa, Israele e le religioni del mondo (San Paolo 2000, p. 5). Per una piena interpretazione di quelle poche parole sono utili, nel volume su Gesù, i braci citati al post precedente a esso dedicato e alcune  righe che si leggono a p. 133: “Va da sè che questa concezione (del giudaismo del tempo di Gesù come un “legalismo fossilizzato, che nel più profondo significherebbe ipocrisia”, ndr) non poteva generare un’immagine amichevole del giudaismo. La critica moderna – a partire dalla Riforma – ha visto però l’elemento ‘giudaico’ così concepito ripresentarsi nel cattolicesimo”.  Per la summa della posizione di Ratzinger sull’ebraismo al volume citato sopra va aggiunto l’articolo apparso sull’Osservatore romano del 29 dicembre 2000, intitolato L’eredità di Abramo dono di Natale.