Mese: <span>Agosto 2007</span>

– Ho visto un tale che comprava l’Osservatore romano all’edicola
– Sarà stato un curiale che ha avuto oggi una nomina
– No, era un laico
– Allora sarà stato un parente di uno che ha avuto una nomina

– Sento dire che il cardinale Bertone vuole rinnovare l’Osservatore romano
– Introdurrà la pagina dello Sport!

Esercizi di amore del prossimo:
“Amare il prossimo papa”

Sul trasferimento del vescovo Luciano Monari da Piacenza a Brescia:
“Il cardinale Ruini si è tolto un sassuolino dalla scarpa”
(Nonsense basato sul fatto che Ruini e Monari sono ambedue di Sassuolo, Modena – e alludente all’autorità di cui il vicario di Roma gode in fatto di nomine dei vescovi)

Dopo quindici giorni di felice vacanza in Sicilia – diciottesima visita in 35 anni – sono tornato a Roma pieno di vedute e di visioni. Ho gettato l’occhio per la prima volta sui mosaici di Piazza Armerina e sugli scavi di Morgantina, per la prima volta ho camminato nella gola dell’Alcàntara. Finalmente ho fatto il giro intero dell’Etna, da Linguaglossa a Randazzo, a Bronte, ad Adrano. Credo di non aver mai trovato, da nessuna parte, una simile geografia delle meraviglie. Ma sopra a tutto metto la conversazione con i siciliani, guizzante come gli occhi di chi ti parla, seducente nella precisione come nell’ingenuità. Ho chiesto a un pizzarolo di Linguaglossa perchè la sua città si chiamasse così e mi ha risposto raccontandomi con ritmo incantevole – mentre infornava le pizze – la leggenda del “mastro” chiacchierone che abitava all’ingresso del paese e che “parlava così tanto con tutti quelli che arrivavano” che si meritò il soprannome di “linguagrossa” che poi “restò a tutti noi”.  

Ai piedi dell’Etna ho visto la gola dell’Alcàntara, dove il fiume scorre gelido in fondo a due immaginifiche pareti di basalto e credo d’aver capito da dove viene la passione dei siciliani per ogni architettura.

A Scicli nella chiesa matrice di Sant’Ignazio ti mostrano una statua in legno e cartapesta della Madonna a cavallo, con spada e corazza, chiamata “Madonna delle Milizie”, che nella piana dell’attuale Donnalucata (gli arabi la chiamavano Ainlu Kat) avrebbe combattuto a fianco di Ruggero II determinando la vittoria sui saraceni dell’emiro Belcane (1091): il cavallo bianco della Vergine calpesta un arabo e un moro e pare sia un simulacro unico al mondo, paragonabile ai San Giacomo “matamoros” (ammazzamori) della Spagna. Un cicerone guercio e sordo narra la leggenda, mostra la statua, descrive la festa della “Turchesca di Maria delle Milizie” che si tiene il sabato che precede di quindici giorni la Pasqua. Io faccio conto di capire quello che dice e mormoro “bella” – all’indirizzo della statua – ed egli, che mi legge le labbra, è felice della parola e della mancia con cui lo saluto. Quella Madonna con la spada mi scatena tutti i sentimenti, ne parlo con la titolare del bed and breakfast “Giardino a mare” dove alloggio a Donnalucata, Maria Luisa Cannata, che mi racconta come sia stato suo ospite un giorno l’islamologo vaticano Maurice Bormans (già direttore del Pontificio Istituto di studi arabi e d’islamistica), con il quale si è addottorata in lingua araba una sua figlia: lo studioso ha visto la statua e ha detto trattarsi di un “simulacro unico al mondo”.

Tra le meraviglie barocche della città di Noto, passate in rassegna a una a una sotto il fuoco del mezzogiorno, ho ascoltato un dialogo dolente tra una donna e un uomo con figlio all’incirca dodicenne, stanco di camminare. Lui che dice: “Dobbiamo ancora vedere questo e quello”. E lei in tono rattristato: “L’importante è vedere vedere vedere, non importa come”. Un’ora dopo ritrovo la mamma e il ragazzo, lei che piange mite e si asciuga la guancia con un fazzolettino di carta e il figlio alle prese con un grosso gelato. Immagino la protesta del ragazzo stanco di “vedere”, la donna che prende la sua difesa, l’inflessibile coatto del “vedere” e la momentanea frattura del trio visitante.

Ragusa Ibla: un sogno, un trofeo, una cascata di pietre fatte umane dal tempo. Scicli al tramonto vista dalla bastionata di San Matteo, quando si accendono le luci tra le grigie case in pietra tufacea del quartiere medievale: un braciere con il fuoco tra la cenere.

Capita che tu stia facendo una tranquilla nuotata in mare e la corrente ti porti al largo senza che te n’accorga. Quando non tocchi più fai per tornare, ma più nuoti e più ti ritrovi lontano dalla riva. La moglie e le figlie danno l’allarme e si tuffano due e poi quattro e infine sei tra bagnanti e bagnini per aiutarti a tornare a riva e uno di loro è albanese. Qualcuno chiama l’ambulanza che arriva appena sei uscito dall’acqua, ti misurano la pressione e verificano che tutto è a posto. Firmi una dichiarazione liberatoria e ti lasciano andare. Ti spiegano che in quel tratto di mare c’è una corrente che fa questi scherzi e tu offri un gelato ai soccorritori e alle loro famiglie. Si fa pure una foto di gruppo, salvato e salvatori. E’ capitato a me stamattina nelle acque del “mare africano” a Donnalucata (Ragusa). Credo si sia trattato di un vero salvataggio anche se i soccorritori mi hanno più che altro accompagnato a riva, continuando io a nuotare come potevo. Ma l’aiuto è stato reale, per almeno un minuto mi hanno tirato per le braccia e qualche spinta l’ho molto apprezzata. Se non mi sono abbandonato al panico e non ho “bevuto” più che tanto è stato di certo per la presenza di quegli amici occasionali. Racconto questo fatto da nulla per dire che l’umanità è solidale almeno nelle piccole cose, che generalmente sono la misura di quelle grandi.

Mentre giro per la Sicilia leggo La luce e il lutto di Gesualdo Bufalino (Sellerio 1988) dov’egli sognava per la sua isola “un domani imminentissimo, che già sorride nelle facce dei giovani, vibra nei loro gesti rapidi e lieti, nel mistero incantevole dei loro destini” (p. 15). Un tempo in cui “sarà impossibile distinguere una coppia di ragazzi che passeggia per un viale del parco di Monza da un’altra che balla allacciata in una discoteca di Canicattì” (ivi p. 16). A vent’anni di distanza tento una verifica di quella proiezione del desiderio con l’arte – che sento più mia – della collazione delle scritte sui muri e con poco mi convinco che quel domani è già arrivato. Ecco a Catania, in piazza Dante, sui muri dell’Università, le scritte: “Buongiorno principessa dalle guanciotte rosse. By Didi”; “Ti ringrazio non solo per quello che tu sei ma anche per quello che sono io quando sto con te. Per Federica”. Sull’Etna, scritto su un muretto del piazzale da cui partono gli escursionisti per i “Monti rossi”: “E riveleremo che è possibile vivere soltanto di amore e desiderio”. Sono le scritte che trovo ovunque in Italia.

Ugo Adamo è un cultore di archeologia che mi ha mostrato la Villa romana del Casale (Piazza Armerina) e gli scavi di Morgantina (Aidone) che fu sicula, greca e romana e dove l’Università di Princeton ha individuato una vasta agorà nel mezzo della quale vi è un albero di fico che mi ha dissetato a metà della visita. Un fico dolcissimo avevo colto l’anno scorso da una pianta della Valle dei templi di Agrigento, in vista delle 38 colonne della Concordia (vedi post del 21 agosto 2006). Feci da solo e mi parve un sacrilegio, come l’avessi tolto di bocca a uno degli scalpellini impegnati nella costruzione della “più bella città dei mortali”, come Pindaro qualificò Akragas. Stavolta invece è stato l’arguto Ugo, assegnatomi come guida dal vescovo Pennisi, a segnalarmi i fichi e ad aiutarmi a raccoglierli.

Guardo alla Sicilia come a una seconda patria tanto ne amo la luce e le pietre. Ma sono i siciliani che più mi attirano, con quella parlata tagliente e l’intelligenza che essa trasmette. Una risorsa con cui questo popolo rimedia a tante lacune. La segnaletica stradale per esempio in Sicilia è per lo più incoerente ma non c’è siciliano che non sappia dirti per dove prendere e a quale semaforo svoltare. Qui la più gran dote è la cultura dell’ospitalità che non finisce di stupirmi. Mi congedo dal vescovo di Piazza Armerina dicendogli che andrò a vedere Grammichele, la cui pianta – che si sviluppa a partire da una piazza esagonale – mi ha stregato da quando l’ho vista in una foto aerea. E lui a dirmi che a Grammichele è nato e che telefonerà al sindaco e al comandante dei vigili e non so a chi altro perché mi venga mostrata la “lavagna” che domina l’atrio del palazzo comunale, sulla quale è scolpita la pianta della città tracciata alla fine del Seicento da Michele da Ferla dopo che la vicina Occhiolà fu distrutta dal terremoto del 1693. “Ora le do il numero di telefono dell’ex sindaco Salvatore Scacciante che le farà da guida”, dice il vescovo. E io a dire e ripetere  che “no, non voglio” perchè “non oso legare qualcuno ai capricci della mia tabella di marcia”. Due ore dopo sono sulla piazza di Grammichele e mi sto chiedendo se percorrerla in senso orario o antiorario, quando mi si fa incontro un signore garbatissimo che dice: “Il dottor Accattoli? Sono Scacciante, amico del vescovo Pennisi”. Sta con me due ore e mi mostra la sede del comune, il museo archeologico, la mostra che in esso è allestita, la chiesa di Santo Spirito e tutto il resto e infine mi accompagna all’imbocco della strada che mi porterà a Lentini. Io non so essere così ospitale, a Roma non lo siamo. Ammiro chi lo è.