Il blog di Luigi Accattoli Posts

Mi arrivano le Lettere dalla Turchia di don Andrea Santoro (Città nuova, pp. 250, 10 euro) e mi allietano già solo mostrandomi la sua viva immagine in copertina, da una foto che lo ritrae con la Bibbia di Gerusalemme in mano, intento ad animare un pellegrinaggio ai “luoghi santi” della Turchia. Segnalo il libro dopo averlo letto in una notte: sono 33 lettere che mandò agli amici tra il 2000 e la morte, avvenuta il 5 febbraio scorso. C’è un’introduzione del cardinale Camillo Ruini e viene riportata in appendice l’omelia con cui lo stesso Ruini diede l’ultimo saluto al suo prete fidei donum (cioè missionario) il 10 febbraio nella Basilica di San Giovanni, segnalandone il “coraggio cristiano” e dicendosi convinto che “nel suo sacrificio ricorrono tutti gli elementi costitutivi del martirio cristiano”. A chi ha la fortuna di fare un mese di ferie consiglio di portarsi questo libro e di leggere una lettera al giorno. Ognuna è una lectio su come individuare i segni evangelici nel mondo profano che ci circonda. Egli lo faceva in Turchia e il suo sguardo penetrante può aiutarci a farlo in Italia e dappertutto.

Jennifer, 20 anni, che aveva preparato le tutine e gli orsacchiotti per Hevan che stava per nascere. Uccisa dal padre randagio del bambino. Jennifer così leggera eppure così sicura di essere madre. Ti voglio bene.

Seguo la presentazione del volume I giovani italiani di fronte alla vocazione, a cura di Franco Garelli (San Paolo editore) e ascolto Luca Bonari, del Centro nazionale vocazioni, che dice: “Questi ragazzi apprezzano massimamente quello che meno seguono: dicono di ammirare l’ideale missionario e vediamo come stanno oggi gli istituti missionari, mentre i nmonasteri – che sono i meno sognati – scoppiano di presenze”. Mia riflessione, ispirata alla visione del film Il grande silenzio: la figura del missionario si lega allo spirito di avventura e attira a largo raggio, mentre il “grande silenzio” rimanda alla ricerca interiore e ha pochi seguaci. Ma il grande numero facilmente esulta e facilmente si smemora, mentre la chiamata al silenzio arpiona nel profondo.

All’udienza generale ci sono cinquemila persone venute da Chieti, con l’arcivescovo Bruno Forte, “con il quale – dice il papa – ho collaborato per molto tempo nella Commissione teologica internazionale”. Fu una “collaborazione” importante, riguardò per esempio il documento “Memoria e riconciliazione. La Chiesa e le colpe del passato”, pubblicato il 1° marzo 2000, che Ratzinger e Forte presentarono insieme in Sala stampa vaticana. Ma non è per questo motivo che riprendo la frase improvvisata oggi da papa Benedetto, la riprendo perchè egli dice “ho collaborato”, non dice “è stato mio collaboratore”. Inimitabile finezza del papa teologo.

Nuova strage di italiani a Nassiriya. I giornalisti vanno a cercare i familiari dei carabinieri che morirono nel novembre del 2003. “Sono sempre in contatto con altre vedove. Ci siamo messe a piangere. Ho perso tutto, con mio marito” dice dolente Sabrina Brancato alla collega Elisabetta Rosaspina del Corsera. E Tiziana Ragazzi: “Veglio che i miei bambini crescano senza odio e senza desiderio di vendetta, fieri del padre”. “Io e lui eravamo quasi uguali – confida Marco Intravaio, gemello di uno dei morti di allora – e quando mi chiamano Mimmo, anzichè Marco, mi rendono felice”. Infine un padre, Enzo Vanzan, parla così dei parenti delle nuove vittime: “La loro sofferenza durerà per sempre, ma tutto quello che si può fare per loro è pregare che non si smarriscano, come sto facendo io nel solo modo che conosco, andando a trovare i lagunari”. Questo padre amputato del figlio ci insegna che infiniti sono i modi di pregare. Lo si può fare andando a trovare i lagunari, essendo contenti d’essere chiamati “Mimmo anzichè Marco”, aiutando i figli a crescere senza odio, piangendo i morti degli altri come una piange quello che era tutto per lei.

Arriva in libreria la traduzione italiana del volume di Uwe Michael Lang, con introduzione del cardinale Ratzinger, intitolato Rivolti al Signore. L’orientamento nella preghiera liturgica, che era apparso nell’originale inglese nel 2003. Nella prefazione a questo volume, come già in tante altre occasioni, il cardinale Ratzinger rinnova la sua critica agli altari che la riforma liturgica ha girato verso il popolo e invita a “un nuovo dibattito, più disteso” su quella come su altre innovazioni. Mi ha sempre colpito la libertà di parola del cardinale Ratzinger in merito alla riforma liturgica di Paolo VI. Egli ne è severissimo giudice, il suo linguiaggio si fa quasi stroncatorio sul tema – che ritiene decisivo – della proibizione del vecchio messale: parla di “rottura senza precendenti” nella storia della liturgia. Quella libertà di parola mi ha colpito – e mi colpisce ancora di più ora che egli è papa – in senso favorevole: egli cioè ci insegna che c’è un modo ecclesiale di essere critici, anche totali, di una decisione papale. Perchè di questo si tratta: il cardinale Ratzinger non solo critica, ma sostanzalmente respinge alcune decisioni di quel papa contenute nelle sue “istruzioni” postconciliari, in specie quelle riguardanti la traduzione integrale della messa nelle lingue moderne, la redazione del nuovo messale, la proibizione di quello antico e le indicazioni a riguardo dell’altare rivolto al popolo. Non mi pare che altri papi dell’ultimo secolo fossero stati pubblicamente altrettanto critici, da cardinali, di un loro predecessore. Vedo qui una delle novità liberanti di questo pontificato.

Dialogo “sulla vita” tra il cardinale Martini e il chirurgo Marino: lo pubblica l’Espresso, di cui Marino è collaboratore e fa correre i vaticanisti. Scrivo quattro pezzi in due giorni: vedili in questo sito nella sezione “Dal Corriere della Sera“. In qualche passaggio non comprendo bene il lungo scambio di e-mail da cui è nato il dialogo, forse per impreparazione sull’aspetto scientifico delle varie questioni, ma quando capisco condivido. Soprattutto mi ritrovo nell’invito del cardinale – che vale anche per gli altri uomini di Chiesa – a non ostentare un’improbabile sicurezza di giudizio su materie nuove e prima d’aver svolto su di esse un qualsiasi confronto critico. Aggiungo che ogni Chiesa dovrebbe aver cura di non pronunciarsi in modo impegnativo su nessuna delle nuove questioni prima di un’ampia consultazione ecumenica. Altrimenti va a finire che mentre si sanano le ferite del passato, si mettono le basi per nuove divisioni.

Con una lettera al Corriere della Sera Berlusconi torna a proporre una larga intesa all’Unione, che gli risponde a brutte parole: forse non si può pretendere una risposta diversa, ma avendo votato per il centrosinistra, non mi ritrovo nella mala risposta. Già nella prima dichiarazione dopo il voto, martedì 11 aprile, Berlusconi aveva fatto quell’invito e già allora la sua uscita mi era parsa degna di attenzione. Certo il contesto non favoriva la riflessione. L’ostinazione – che dura tutt’ora – a criticare i festeggiamenti della vittoria da parte del centrosinistra e la retorica sui “brogli” non aiutavano chi pure avesse apprezzato la proposta per un’intesa. Ma la proposta c’era e in qualche modo, da qualcuno, andava onorata. Essa indirettamente costituiva una presa d’atto della sconfitta e non le era estranea una componente di umiltà: quella di chi si espone a un rifiuto annunciato. Forse la politica costringe a semplificare e impedisce di cogliere la serietà altrui mentre ancora festeggi. Ma in quella proposta una serietà io ce la vedo.

“Volevo solo aiutare un vecchio” dice Giuseppe Lo Bue che portava i pacchi a Bernardo Provenzano, nascosto nel casolare sulla Montagna dei Cavalli, nella campagna di Corleone. Leggo queste parole sul Corriere della Sera e mi ci fermo un attimo. Ovviamente Lo Bue è accusato di associazione mafiosa. Dietro i pacchi e i pizzini ci sono i morti e tutto il malaffare di quel mondo. Ma anche nella mafia c’è la vecchiaia e l’occasione per aiutare un vecchio.

Oggi, Venerdì Santo, viene spontaneo ricordate papa Wojtyla con il crocifisso nelle mani, ripreso di spalle il Venerdì Santo dell’anno scorso, otto giorni prima della morte. Aveva il sondino nasogastrico e per non mostrarlo con un segno così invasivo i responsabili della “famiglia pontificia” decisero che la telecamera lo riprendesse solo da dietro, o di lato. L’inserimento del sondino per l’alimentazione sarà annunciato il mercoledì seguente, 30 marzo. Ma in verità il papa lo portava stabilmente dal lunedì della “settimana santa” e a più riprese gli era stato inserito durante gli ultimi giorni del secondo ricovero al Gemelli, che andò dal 24 febbraio al 13 marzo. Ho ricostruito la vicenda del sondino con una minuta inchiesta tra le persone che accostarono il papa in privato lungo l’ultimo mese, sia al Gemelli che “nella sua casa”, come si espresse con i collaboratori quando scelse di morire nel palazzo vaticano. Quella sui tempi dell’uso del sondino è l’unica discordanza di rilievo che la mia indagine ha messo in evidenza rispetto a quanto era stato annunciato pubblicamente, giorno dopo giorno, dal portavoce Navarro-Valls, ma rispetto anche alla narrazione delle ultime settimane stesa dal medico curante Renato Buzzonetti e pubblicata dagli Acta Apostolicae Sedis il 19 settembre 2005. Per non affermare il falso e non contraddire – post factum – le dichiarazioni del portavoce, gli Acta affermano: “Il 30 marzo veniva comunicato che era stata intrapresa la nutrizione enterale mediante il posizionamento permanente di un sondino nasogastrico”. Era stata “intrapresa” infatti, ma non quel giorno! Alla riga successiva la narrazione ufficiale della morte del papa così riprende: “Lo stesso giorno, mercoledì, il Santo Padre si presentava alla finestra del suo studio e, senza parlare, benediceva la folla. Fu l’ultima statio pubblica della sua penosa via crucis“. Si affacciò – quell’ultima volta – senza sondino, come senza sondino si era già affacciato altre due volte da quando gli era stato inserito con l’intenzione che fosse “permanente”: e cioè il mercoledì della “settimana santa” e il giorno di Pasqua. La televisione aveva mostrato tutto del papa operato alla trachea – per l’inserimento della cannula – e reso muto dall’operazione: il cerotto che copriva l’ago della flebo sul polso della mano destra e la veste aperta che lasciava indovinare la presenza della cannula. Egli voleva mostrarsi alla finestra ogni domenica e ogni mercoledì e i collaboratori l’ubbidivano consolandosi con il motto – caro a don Stanislaw, il segretario polacco – che “il papa non può essere invisibile”. Quando veniva l’ora della finestra gli toglievano il sondino e lo rimettevano poco dopo. Essendo praticamente annullata la capacità di ingestione di cibi – le ultime comunioni le riceve con una goccia di vino sulle labbra – l’uso del sondino era inevitabile. Ma toglierlo e rimetterlo ogni tre giorni era un tormento che il papa sopportava male e Buzzonetti disse: “Basta, il papa non si affaccia più”, scontrandosi però con don Stanislaw che voleva farlo contento e replicava: “La prossima volta si affaccerà con il sondino”. Ed ecco che si arriva al Venerdì Santo, 25 marzo. E’ la «Via Crucis» numero 26 di Papa Wojtyla, che si tiene come sempre al Colosseo, ma senza di lui, che vi partecipa per televisione, dall’appartamento privato e si fa vedere in collegamento video più volte ma soprattutto alla fine, quando tiene un crocifisso con le mani tremanti, mentre si svolge l’ultima stazione. Legge un suo messaggio di apertura il cardinale Camillo Ruini: “Offro le mie sofferenze, perché il disegno di Dio si compia e la sua parola cammini fra le genti”. Più forte del verbo è l’immagine curva e silenziosa del papa che appare sui maxischermi, ripreso di spalle nella sua cappella, seduto davanti all’inginocchiatoio, che segue la «Via Crucis» attraverso la diretta di Rai 1, guardando verso un grande schermo piatto, collocato sul davanti dell’altare. Più volte, tra una stazione e l’altra, il papa ricompare sugli schermi, mentre ascolta i testi dettati – su sua richiesta – dal cardinale Ratzinger. La camera del Centro televisivo vaticano – che passa le immagini alla Rai – lo riprende da dietro e da lato, mai di faccia. Molti si chiesero, anche sui media, perché quella sera non fosse stato mostrato il volto del papa. Vi furono risposte del tipo: non voleva togliere la scena alla croce. La verità è che non ebbero il coraggio di togliergli e rimettergli il sondino. Era a letto, lo vestirono, lo portarono in cappella, dove ebbe la forza di restare inginocchiato per un’ora e mezza e stabilirono di riprenderlo di spalle mentre teneva quel crocifisso al quale ormai così tanto assomigliava.