Mese: <span>Agosto 2008</span>

“L’hanno trattato come un cane in chiesa” si diceva una volta di chi veniva cacciato o scaneggiato. Ma non è più un detto rispondente ai tempi, almeno a quanto ho visto ieri nella parrocchiale di Monterosso al Mare dal bel rosone: c’era un cagnetto a messa col padrone, ma quanto garbati tutti e due! Il padrone ha legato il guinzaglio alla pedana del banco, sulla quale ci si inginocchia, dopo aver steso per terra uno stuoino sul quale ha fatto accomodare la bestiola salutandola con un colpetto sulla nuca. Il cagnetto è restato su quel tappetino disciplinatamente per tutto il tempo, omelia compresa, per lo più sdraiato e anche sonnecchiante ma si scuoteva quando tutti si alzavano e si scrollava come a dire “finalmente qualcosa si muove”. Alla comunione il padrone attende che quasi termini la fila e va a prenderla per ultimo in modo da restare fuori dal banco il meno possibile, con il cagnetto che sporge il muso verso il corridoio centrale e lo segue con il movimento del capo, le orecchie ritte e l’occhio sveglio, ma per nulla allarmato. Tornato al posto risaluta la bestiola con quel tocco sulla testa e quella fa come per baciargli la mano. Non potresti immaginare gesti più appropriati al luogo e al momento.

La vista del fiume Trebbia (vedi post precedente) mi provoca a due immagini: quella del ponte Gobbo di Bobbio, che più gobbo non potrebbe essere e quella – tutta di fantasia – degli elefanti di Annibale che qui combatterono contro i romani guidati dal console Tiberio Sempronio Longo contribuendo grandemente a metterli in fuga, ma poi morirono “quasi tutti” per il freddo sotto a una lunga tormenta di pioggia e di neve. Era il 18 dicembre del 218 avanti Cristo e si era all’inizio della seconda guerra punica. I romani non avevano ancora sviluppato le tecniche di contrattacco agli elefanti la cui apparizione – secondo il racconto di Tito Livio – provocava innanzitutto il panico tra i loro cavalli “non solo per l’aspetto ma anche per l’insolito odore”. Il fiume Trebbia doveva avere molta più acqua di oggi, se fu un impedimento decisivo al ripiegamento dei romani: lo vedo scorrere esile sotto i piedi dei bagnanti, padroni indisturbati del suo larghissimo letto. Incredibile sorte degli elefanti e delle genti africane venuti a morire qui – “per il freddo e le ferite”: ancora Tito Livio – seguendo un condottiero che voleva distruggere Roma di cui nulla sapevano.

Come immaginavano l’elefante i pittori del Medioevo che non l’avevano mai visto? Un elefante di fantasia – somigliante a un cavallo con una gran tromba per proboscide – l’avevo trovato all’inizio di agosto nel chiostro della cattedrale di Bressanone e ne ho visto oggi un altro nella cripta della Basilica di San Colombano a Bobbio, che ha meno proboscide e pare piuttosto un formichiere gigante: perché sono passato dalla Romea alla Francigena (vedi post del 14 agosto) con un lungo trasferimento autostradale e l’abbazia di Bobbio, nella valle della Trebbia, è la prima tappa di questo secondo tempo della mia vacanza. Il mosaico illustra la storia dei Maccabei e mette in scena anche l’episodio di Eleazar che affronta il re nemico: “Egli s’introdusse sotto l’elefante, lo infilò con la spada e lo uccise; quello cadde sopra di lui ed Eleazar morì” (1 Maccabei 6, 43-46). Il mosaicista fa del suo meglio ma non dà all’elefante le giuste orecchie e le zanne e la quattro zampe che riempiono lo spazio sotto la groppa. Eppure per questa valle mille anni prima era passato Annibale con i suoi elefanti da combattimento: ma di questo parleremo domani. Al momento mi perdo a sognare che cosa immaginasse il cantore della Canzone d’Orlando quando metteva in bocca al paladino l’Olifante e mi seduce la fantasia di Tolkien che nel Signore degli Anelli descrive un mostro che chiama Olifante, simile ma non uguale all’elefante, segnalandolo con le emozioni che provoca in stirpi che il vero elefante mai l’avevano conosciuto. C’è questo fatto da accettare: l’umanità da sempre sogna l’elefante come sogna il drago. Il sogno dell’elefante era ed è alimentato da periodiche apparizioni di veri elefanti, mentre quello del drago si alimentava da solo.

Seguendo i consigli di Baltassar e Roberto 55 abbiamo vagato in libertà per i sestieri di Castello e Cannaregio, Santa Croce e San Polo. Ci siamo goduti Venezia senza romperci la testa nei musei, restando per un giorno intero all’aria aperta. Chiedevamo ai veneziani che significassero le parole “fondamenta” e “salizada”. Abbiamo così scoperto che San Stae sta per Sant’Eustachio e che a Venezia si venerano più che altrove i santi dell’Antico Testamento: ci sono chiese intitolate a San Geremia, San Giobe, San Moisè, San Samuele, San Simeon Profeta, San Zaccaria. Abbiamo visto che la chiesa di San Simeon Piccolo è più vasta di San Simeon Grande. Siamo passati per il sottoportego della siora Bettina e per la Calle del Cristo, ma anche per quella dei Cristi. Attraverso le fondamenta della Stua siamo sboccati nella calle delle Carampane e abbiamo attraversato il ponte delle Tette. Abbiamo preso un gelato e fatto foto nel Campo dei santi Zanipolo (Giovanni e Paolo) e poi dalle Fondamenta Nuove con il vaporetto 51 siamo andati al Lido, ma non c’è piaciuto: “Qui ci sono le automobili e non ci sono i canali” ha detto la figlia sollecitandoci a tornare indietro. Siamo passati almeno quattro volte sotto l’avveniristico ponte di vetro dell’architetto Santiago Calatrava, il quarto sul Canal Grande, che sarà inaugurato a metà settembre. Col DM – Diretto Murano – abbiamo raggiunto Murano, l’abbiamo goduta quanto Venezia, abbiamo abbracciato stretta la Vergine orante dell’abside della chiesa dei Santi Maria e Donato, dritta e sola e a mani aperte nel catino d’oro. Da Murano siamo tornati con il vaporetto 41 che ha rallentato ma non si è fermato davanti all’isola di San Michele, che è quella del cimitero: nessuno doveva scendere e nessuno doveva salire.

Divieto di fare bivacco per calli e campielli, divieto di questuare e del commercio ambulante: sono tre provvedimenti del Comune di Venezia che conosco a orecchio, più per il dibattito da cui sono stati accompagnati che per il loro contenuto. Arrivando mi chiedevo che ne fosse in realtà della povera Venezia, dietro la propaganda e le polemiche: ripartendo la mia impressione è che un qualche miglioramento vi sia stato. Non coi bivacchi: ho visto famigliole e comitive magiare dappertutto, come sempre in passato. Mi è parso invece che ci fossero meno mani tese per la strada e meno venditori di ogni cosa. Ho chiesto al ristorante, in albergo e a un amico veneziano che vive a Venezia – Giovanni Benzoni, che fu presidente della Fuci quand’io ero fucino – e la conclusione è stata convergente: le ordinanze del sindaco Cacciari non hanno fatto miracoli, ma un miglioramento minimo e momentaneo vi è stato. Un poco più di vigilanza, un poco meno di disturbo agli abitanti e ai turisti. Meno persone inginocchiate a chiedere l’elemosina, meno venditori di borse sui ponti e i marciapiedi. Difficile immaginare che il miglioramento si stabilizzi, ma potrebbe essere. E siccome a Roma abbiamo gli stessi problemi, ingigantiti dalla dimensione, mi auguro che da Venezia ci venga un buon auspicio se non un qualche insegnamento.

Emozione dell’arrivo a Venezia in automobile: dal delta del Po, per la Strada Romea, abbiamo raggiunto Venezia con la nostra Croma che abbiamo parcheggiato a Piazzale Roma. Tre giorni di parcheggio, 72 euro. Abbiamo poi acquistato un biglietto Actv per tre giorni a 32 euro a testa e così potremo prendere tutti i vaporetti e le motonavi che vogliamo. Mentre uscivamo dal parcheggio abbiamo incontrato il sindaco Cacciari che entrava in esso ed eccoci nella città che tanto è cara alla nostra figlia più giovane, che già vi era stata tre volte: è una bellezza vedere come si appassiona nel guidarci da un sestier all’altro, seguendo sulla mappa le calli e i campielli. Qui racconterò di Venezia solo qualche particolare minimo, come si addice ad argomenti troppo grandi. Per esempio quel capitello del XIV secolo dedicato alla frutta, appartenente a una vecchia sistemazione del Palazzo Ducale, che abbiamo trovato esposto insieme a una cinquantina d’altri nelle prime sale dopo l’ingresso dal Bacino di San Marco. Si compone di sei cesti di frutta con sopra i nomi: fici, sereses, uva, cocumberes, melones, piri. Mi sono piaciuti soprattutto i “fici” che prediligo e non ho potuto resistere, più tardi, alla tentazione di acquistare un chilo di fichi verdi e neri a 3 euro al Campo San Leonardo. E dunque non è vero che a Venezia costa tutto troppo: devi scegliere il luogo dell’acquisto.

Finalmente ho visto il delta del Po. L’attendevo da sempre, ma passando di qua c’era sempre una qualche fretta. Stavolta ho preso il giusto tempo per potermi inoltrare tra il Po di Goro e il Po di Venezia – straordinaria la veduta del punto in cui si separano – e ho persino scavalcato un ramo denominato “Il Po di Gnocca”. Perchè il mio personalissimo elenco dei toponimi più strani oggi si è arricchito di Gnocca e Gnocchetta: due con un colpo solo! Ho un collega – Renzo Giacomelli – che ha la mia età e che è nato da queste parti: mi ha raccontato dell’inondazione del Polesine, quand’era bambino e della notte che passò sul tetto, con tutta la famiglia, in attesa che una barca li portasse in salvo quando si fece giorno. Ho compiuto i miei giri per il delta cercando di guardare l’orizzonte con i suoi occhi e la sua memoria. Con essi sono salito a tre riprese sugli argini e le dieci e venti volte mi sono domandato: ma è più alto il livello del fiume che è alla mia sinistra, o quello del suolo che è alla mia destra? Mi sono spinto fino alle bocche del Po di Goro per ripetermi la stessa domanda riferita al mare: se ci fosse una falla in quest’argine, sul quale sto passando in auto, il mare si rovescerebbe sulla terra come il Mar Rosso dopo il passaggio del popolo eletto? Incredibile avventura dell’uomo e della natura che possiamo rivivere a occhio nudo arrivando pellegrini in questo avamposto di ogni realtà: cielo luminoso, acqua dappertutto, terra verdissima, aironi e albatri, umanità che guarda dal basso in alto al fiume e al mare.

L’abbazia di Pomposa è una festa per gli occhi: le storie dell’Antico Testamento in alto, quelle del Nuovo al centro e l’Apocalisse sotto, tutto così bene squadernato, colorito, amabile e leggibile in ogni particolare. L’incanto della donna incinta appostata dal dragone dalle tante teste che abbiamo letto il giorno dell’Assunta. Il bianco vecchio della stessa Apocalisse (1, 14-16) dalla cui bocca “usciva una spada affilata a doppio taglio”. I covoni sparsi per il campo nel sogno di Giuseppe, la padella e il clistere sotto il letto della figlia del Sinagogo… e infine l’aureola scura di Giuda nell’Ultima Cena. Povero Giuda: è lì come tutti, non sta scappando come in altre raffigurazioni, anche se già morde il boccone, unico dei dodici ad averlo alla bocca come se abbia fretta. Mi colpisce che abbia l’aureola come gli altri, che l’abbia ancora, benchè meno lucente, diciamo grigio-scura.